MUTAZIONE ANTROPOLOGICA DELL’ADOLESCENZA

Pubblicato da Dott. Adriano Bruni il

Da tutta la vita mi occupo delle patologie adolescenziali aiutandoli a ricucire le ferite, le paure, i traumi. Mi hanno molto colpito le testimonianze dei ragazzi che, sul un quotidiano , hanno messo sotto accusa la scuola, definita il luogo che provoca ansia, malessere, addirittura crisi di panico. Non è possibile ignorare questa richiesta di aiuto. Io sono dalla parte dei ragazzi, è la scuola che deve cambiare e creare un ponte verso una generazione che sta gridando il proprio malessere. E’ in atto una rivolta esistenziale e sono gli adulti a dover dare risposte. Basta con i professori in cattedra, arroccati dietro il programma, mentre migliaia di studenti, sempre più smartriti chiedono di essere visti ed ascoltati. O prendiamo coscienza che è in atto una mutazione antropologica dell’adolescenza, oppure perderemo il contatto con i giovani. Una società adulta non può arrendersi di fronte al malessere della propria gioventù. Sarebbe come rinunciare al futuro. Non mi stupisce affatto che degli adolescenti della generazione Z non riescano a stare seduti in classe più di qualche ora e la loro attenzione sia scarsa ed intermittente. La mente dei nostri ragazzi è stata trasformata per sempre dal contatto e dall’abuso degli Smartphone. E’ una generazione ansiosa ed i ragazzi stessi riferiscono di avere l’ansia e quindi “curateci”. Hanno ragione, del resto i ragazzi sono cambiati anche da  un punto di vista neurobiologico, ma la scuola è rimasta indietro, antiquata, anzi, alla grande crisi esistenziale dei giovanissimi risponde tornando ai voti, alla disciplina, ad una meritocrazia che non si sa bene cosa sia. Il 2012 è oggi considerato uno spartiacque tra le generazioni perché è l’anno in cui a livello di massa si diffondono gli smartphone che arrivano anche nelle mani dei bambini. Strumenti di una potenza inaudita, a mio parere, anche devastante, se regalati prima dell’adolescenza. A distanza di oltre dieci anni noi vediamo l’impatto che hanno avuto su menti così acerbe. Un dato su tutti: il disturbo dell’attenzione. L’unica strada del  mondo dell’istruzione è ripensare i metodi di insegnamento tenendo conto delle diverse modalità di apprendere della Anxious  Generation altrimenti continueremo ad avere professori che parlano ad una platea che non li segue più con la frustrazione che ne consegue. Cominciamo con il mettere un grande tavolo al centro dell’aula, a lavorare per gruppi.

Anche perché l’altra faccia della tecnologia è che questi ragazzi hanno competenze nuove, sono velocissimi nell’imparare e nel creare nuovi linguaggi. Ripensiamo la nostra edilizia scolastica, pesante, vetusta che già di per sé mortifica il bisogno di muoversi nell’età in cui il corpo non può stare fermo, esplode nei cambiamenti ormonali, vuole esporsi. Questo è quello che si chiama angoscia claustrofobica. Non possiamo dare tutta la colpa del malessere giovanile agli Smartphone. Questi, in mano giorno e notte, sono solo una parte del problema. Dietro questo malessere ci sono due fattori che riportano però all’incomunicabilità tra due mondi. Tra scuola vecchia ed una gioventù nuova. La gioventù è sempre nuova, ma non è mai cambiata con questa velocità. Oggi i ragazzi sono figli unici, crescono in famiglie iperprotettive con genitori molto vicini e complici, sono un po’ al centro del mondo. A scuola però vengono valutati con metodi tradizionali che non tengono affatto conto di loro come persone, delle loro difficoltà. Questo li schiaccia, li fa soffrire e lo ritengono ingiusto. Hanno poi una serie di fragilità che derivano dagli anni della Pandemia, da un futuro precario, figlio anche della caduta dell’identificazione verticale con i mestieri e lo stato sociale dei genitori. I giovani chiedono politicamente alle scuole di farsi carico della loro dimensione esistenziale, vogliono molto di più. Chiedono ai professori di essere educatori, di avere ruoli guida oltre ai voti, oltre all’interrogazione. E’ la prima generazione che rivendica politicamente il diritto al benessere psicologico. O la scuola si adegua o perde, se ci si pensa questa è una rivoluzione. La risposta dello stato è inerte quando non repressiva. Cito solo un dato: l’Italia destina alla salute mentale meno del 3% del fondo sanitario nazionale. E’ pochissimo, ai ragazzi vanno soltanto le briciole. I ragazzi hanno ragione: la valutazione numerica cristallizza e crea ansia, non rappresenta quello che loro sono, per questo dico che si deve arrivare ad una scuola senza voti. Abolire il voto come numero significa uscire da uno schema di scuola fatta di interrogazioni, compiti in classe, compiti a casa, note. Una terminologia che non ha nessun riscontro pedagogico. La scuola ha bisogno di una svolta radicale di fronte a questa generazione di studenti. La scuola senza voti non significa una scuola senza valutazione. La valutazione deve considerare l’evoluzione del percorso scolastico e basarsi sulle caratteristiche di ogni alunno. Cosa vuol dire un 3? Ed il 5 e mezzo ed il 6-  sono sufficienti, oppure no? Un numero non chiarisce nulla sull’apprendimento, è un equivoco istituzionalizzato. Si può dare una valutazione a fine anno sulla base dei progressi fatti. Superiamo una scuola oramai dominata dalla dimensione del controllo e del giudizio, che ostacola la nascita di una vera motivazione allo studio. Suggerisco una scuola si fa lavoro di condivisione e dove si sostiene il processo socio affettivo di appartenenza al gruppo classe. Si deve lavorare sull’accoglienza e sulla costruzione delle relazioni. La figura del docente è centrale, ma deve esserlo come figura maieutica e non ex – cathedra. Su questo si gioca una partita enorme, insegnanti di qualità ce ne sono, vanno sostenuti. Non è meno importante fare progetti educativi per i genitori, questo aiuterebbe la scuola.

 

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