NEMICO INVISIBILE
Di fronte ad un pericolo la prima reazione motoria che mettiamo in atto è darsi alla fuga, ci allontaniamo il più in fretta possibile dalla minaccia incombente. La paura è la risposta emotiva che segnala e localizza il pericolo in un oggetto determinato, mobilizzando il nostro distanziamento rapido. Quando invece, come sta accadendo con l’epidemia da coronavirus , la minaccia non è localizzabile, quando sfugge ad ogni determinazione, quando la sua presenza è invisibile e delocalizzata, clinicamente ci troviamo di fronte al passaggio obbligato dalla paura all’angoscia. Il sentimento dell’angoscia, infatti , diversamente da quello della paura, non si scatena più di fronte ad un oggetto minaccioso. L’angoscia non ha oggetto , è, diversamente dalla paura, come ci ha insegnato Freud, è senza oggetto. Il pericolo viene avvertito ovunque, proprio perché non è localizzabile. La sua delocalizzazione non genera più paura, ma angoscia o panico. Se nei confronti dell’oggetto fobico, un serpente, un ragno, un burrone, un aereo, basterebbe un il suo evitamento per evitare la nostra angoscia, nel caso della circolazione del virus la strategia dell’evitamento diventa impossibile proprio a causa dell’indeterminazione dell’oggetto minaccioso.. L’angoscia del contagio sparpaglia, infatti, l’oggetto temuto ovunque, nelle mani, nella bocca, nel denaro, nelle maniglie delle porte, nei vestiti, sui mezzi pubblici, insomma in ogni oggetto del mondo. Non a caso riscontriamo attualmente nei nostri pazienti il moltiplicarsi delle crisi di panico o di comportamenti fobici caratterizzati dal ritiro sociale, dall’autoreclusione, dall’isolamento, dal timore di ogni forma di contatto. Da un altro punto di vista, strettamente correlato a questo passaggio dalla paura all’angoscia, questa epidemia mette in scacco anche la forma collettiva più potente di difesa dalla minaccia, quale è la difesa paranoica
L’individuazione di un nemico esterno, di una razza inferiore, di un ceto sociale, di un ideologia, consente di canalizzare l’inermità passiva dell’angoscia collettiva in un atteggiamento attivo di difesa. Se riusciamo a identificare il nemico, si tratta di combatterlo apertamente, di rigettare con forza la sua presenza tra noi. L’esistenza di un nemico localizzabile esternamente, l’ebreo, il negro, il migrante, il cinese, cementifica paranoicamente il corpo sociale inspessendo i suoi confini difensivi. L’esistenza del nemico rinsalda paranoicamente la nostra identità. Talvolta può persino produrre un effetto di massa euforico, l’euforia di essere uniti contro gli ebrei, gli omosessuali o i migranti per esempio. Questa è la tendenza che ha coinvolto pesantemente l’ultima stagione politica dominata da una evidente passione securitaria per il muro, l’argine, la militarizzazione del confine. Nel caso del coronavirus l’identificazione del nemico non è possibile. La presenza dello straniero non abita più al di là delle nostre frontiere, ma si diffonde tra noi, o, addirittura, si innesta nei nostri corpi.
E ’quello che sta accadendo, la difesa paranoica di fronte alla minaccia dell’estraneo si è smembrata dando luogo ad una frantumazione della massa e, di conseguenza, ai fenomeni del panico e del ritiro sociale. Il sentimento solido e collettivo dell’identità, prodotto dalla difesa paranoica, è stato sostituito da quello fragilissimo dell’inermità individuale, ci sentiamo soli e senza protezione. Per questa ragione l’angoscia del contagio porta con sé la presenza inconscia o conscia della morte. Contraddicendo irrazionalmente i dati della scienza, la percezione comune di questo virus è che sia profondamente associato ad un alto rischio mortale. Quando il corpo sociale si vive come inerme, impotente ed esposto al flagello della malattia, quando i meccanismi de difesa non sono più in grado di presidiare i confini della nostra identità e della nostra salute, la morte, che il discorso contemporaneo tende a rimuovere in tutti i modi possibili, ritorna come il protagonista assoluto ed inquietante della scena.
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